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La geografia europea nella Divina Commedia

Commedia

La Divina Commedia scritta da Dante Alighieri nel periodo del suo lungo esilio da Firenze, oltre ad essere un’opera letteraria di estremo valore può essere considerata anche come una fotografia dell’epoca in cui visse il Sommo Poeta.

Dante scrive di personaggi e descrive molti luoghi, italiani e non solo.

Un recente studio realizzato in occasione dei 700 anni della sua morte si concentra in particolare sulla “Geografia europea nella Divina Commedia”. Sono stati individuati 63 luoghi dell’Europa che Dante ricorda ed immagina nel suo viaggio.

Non è stato ancora chiarito se durante l’esilio Dante sia stato a Parigi frequentando l’ambiente della Sorbona.

Della presenza di Dante a Parigi si trovano riferimenti sia in testi di Giovanni Boccaccio che in quelli di Giovanni Villani, cronista del Trecento.

Boccaccio scrive: “…Italia abbandonata, passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n’andò a Parigi e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede”.

Anche Giovanni Villani parla della presenza di Dante a Parigi.

Il cronista scrive: “fu cacciato e sbandito da Firenze, e andossene allo studio di Bologna, e poi a Parigi, e in più parti del mondo”.

In alcuni versi della Divina Commedia, Dante fa riferimento ad una via di Parigi. (Par X 136-138):

Essa è la luce etterna di Sigieri,

che, leggendo nel Vico de li Strami,

silogizzò invidiosi veri.

Il Vico de li Strami (v. 137) è la Rue du Fouarre («via della paglia») a Parigi, dove si trovavano, all’epoca di Dante, le scuole di filosofia in cui Sigieri di Brabante insegnava. La via si chiamava così perché gli studenti portavano con sé della paglia dove sedersi durante le lezioni.

I passi della Divina Commedia dai quali emergono riferimenti diretti alla terra francese sono sette. Tra questi si fa riferimento ai Sepolcri di Arles (Inf IX 122, ), tuttora visibili, e al fiume Rodano (Par VI 60).

Ed un altro fiume, il Tamigi che bagna Londra, è citato nell’Inferno di Dante a proposito della figura di Guido di Monfort.

Nel girone dei “violenti”, Guido di Monfort è descritto come un’ombra che sta “da l’un canto sola”. L’indignazione che il delitto da lui compiuto ebbe all’epoca in tutta Europa fu tanto grande che probabilmente Dante lo volle descrivere come respinto dagli stessi violenti.

Il 13 marzo 1271 nella chiesa di San Silvestro di Viterbo Guido di Monfort ammazzò il cugino Enrico di Cornovaglia per vendicare il padre che era stato ucciso in battaglia.

Montfort aveva fatto circondare la chiesa di San Silvestro e dopo essere entrato con il fratello colpì più volte il principe inglese. Enrico di Cornovaglia cercò di ripararsi presso l’altare, ma i due fratelli, con un colpo di spada, gli mozzarono le dita della mano sinistra con la quale la vittima aveva afferrato la tovaglia dell’altare. Enrico, straziato, cadde morto fra le braccia di un sacerdote. Mentre i due fratelli Montfort stavano per scappare dal luogo del delitto, un cavaliere francese del loro seguito li spinse a compiere una vendetta più feroce, ricordando loro che il corpo del padre era stato trascinato nel fango e straziato dopo la battaglia di Evesham. Guido e Simone allora rientrarono in chiesa, afferrarono il cadavere di Enrico per i capelli, lo trascinarono fuori e lo fecero a pezzi.

Il cronista Giovanni Villani scrive che il cuore di Enrico di Cornovaglia venne posto “in su una colonna in capo del ponte di Londra sopra il fiume di Tamigi”. Dante riprende le parole del Villani scrivendo Lo cor che ‘n su Tamisi ancor si cola.

Gli antichi commentatori hanno ritenuto che il verbo “cola”, usato da Dante, derivasse dal latino “colere”, “onorare”, mentre i critici moderni ritengono che vada interpretato come “gronda sangue”, evidenziando come l’omicidio, quando ne scrisse il Sommo Poeta nella Divina Commedia, non fosse stato ancora vendicato.

Il cadavere di Enrico di Cornovaglia fu portato in Inghilterra dove fu sepolto nell’abbazia cistercense di Hailes nel Gloucestershire. Si può ritenere anche che il riferimento al Tamigi voglia indicare la città di Londra nel suo insieme. Alcuni commentatori come Guido da Pisa, Benvenuto e Serravalle sostengono che il cuore di Enrico di Cornovaglia, racchiuso in un vaso d’oro, fosse stato posto nella mano della statua del principe nell’abbazia di Westminster, con l’iscrizione “Cor gladio scissum do cui consanguineus sum” indirizzata quindi al re Edoardo I al quale la vittima avrebbe chiesto vendetta.

Graziarosa Villani

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