Pensavamo che quel pezzo di ferro tirato fuori dalla scuola di artiglieria a Bracciano fosse solo un innocuo cimelio. Un’arma micidiale, un tempo, che non avrebbe più nociuto. Il simbolo di una pagina di storia cittadina legata anche commercialmente al mondo militare, un retaggio dell’antichità. C’è voluto un artista di fama internazionale a richiamare tutti alla realtà dei fatti, ora che la guerra torna nel vecchio continente a contrapporre sul campo potenze da guerra fredda, in contese che credevamo si fossero perdute nei colori della bandiera arcobaleno. Accettare un’arma come un monumento è stato davvero essere accecati dalla normalità della guerra, dai militari che girano in mimetica anche quando vanno a prendere i bimbi a scuola. La guerra offende ad ogni latitudine. Come ebbe a scrivere Gianni Rodari: Ci sono cose da non fare mai, né di giorno, né di notte, né per mare, né per terra: per esempio, la guerra.
Graziarosa Villani
Così Luis Gomez de Teran l’artista di
Olio e fuoco su plexiglas
Non autorizzato
Vicino a Roma (Bracciano ndr)
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Questa non è un’opera d’arte sulla guerra.
Non intendo parlare di guerra, perché le cose che non so sono più di quelle che so.
Non so come una guerra inizia e come finisce.
Non conosco i suoi rumori, i suoi odori.
Non conosco il suo fuoco, le sue ceneri.
Non conosco la sua umiliazione, la sua disperazione.
Non conosco i suoi vincitori, le sue vittime.
Non conosco la sua paura e il suo coraggio.
Non so niente di guerra.
Sono un uomo fortunato, immeritatamente fortunato, e non lo so.
Questa non è un’opera d’arte sulla guerra.
Ma è un’opera d’arte sul modo in cui noi, come società privilegiata, percepiamo la guerra.
Queste sono cose che so, come i simboli possono avere un sottile impatto sulle nostre percezioni.
Giorni fa stavo guidando attraverso una piccola città, quando ho attraversato distrattamente una rotonda e ho visto un cannone.
Un enorme cannone.
Non in una base militare, era un’area pubblica e quell’enorme cannone era esposto come monumento. In bella vista.
Molte macchine passavano laggiù, nessuno sembrava accorgersene.
Un enorme cannone.
Un monumento agli incubi delle persone meno fortunate di me.
Un monumento allo strumento che distrugge le loro case, uccide i loro cari, cancella il loro futuro.
Un monumento che trasforma uno spazio pubblico in un museo del terrore.
Molte macchine stavano guidando, nessuno sembrava accorgersene.
So che la normalizzazione della guerra inizia nelle nostre strade, nelle nostre case.
Nella nostra routine quotidiana, immeritatamente fortunata.
Inizia con soldatini e pistole di plastica per bambini, con adulti vestiti di mimetica che giocano a Softair.
Comincia con le bandiere, con le uniformi, con il patriottismo.
Inizia ad accettare un cannone come monumento.
È questa la normalità in cui scegliamo di vivere?
Io no. Non più.
Questa non è un’opera d’arte sulla guerra.
È un’opera d’arte sul mio disgusto per la sua normalità.
È un ricordo del suo danno, del suo dolore, della sua inutilità.
Un’opera d’arte non può cambiare il corso di una guerra, non può sostenere le sue vittime o risollevarne il morale, non può spaventare i mostri.
Ma all’alba, mentre un’opera d’arte era esposta, le poche auto che passavano laggiù sembravano finalmente notare quel terribile cannone, inspiegabilmente esposto come un monumento, sulla loro strada.
Un’opera d’arte può cambiare la percezione dei luoghi in cui viviamo. Questo è tutto.
Ed è già qualcosa