Pagine di Cinema a cura di Luigi Lozzi
“Anselm” oltre a tracciare un ritratto del pittore e scultore tedesco Anselm Kiefer, tra i più innovativi e importanti artisti del nostro tempo, è un documentario che immerge lo spettatore nella dimensione emotiva, dolorosa, morale dell’artista, attraverso l’esplorazione (che diventa ‘universale’) della natura umana e della storia, in virtù di uno stile assolutamente rivoluzionario.
Nelle sue opere l’artista ha scavato nella ‘memoria’, sua e della sua nazione. Infatti Anselm Kiefer (nato l’8 marzo del 1945) e Wim Wenders (14 agosto del ’45) – uno poco prima e l’altro poco dopo la caduta del Terzo Reich avvenuta l’8 maggio – hanno entrambi vissuto sulla propria pelle e portato sulle spalle un pesante fardello morale, ovvero le cicatrici che l’oscuro passato della Germania (irrimediabilmente insanabile) ha lasciato sul loro corpo e nella loro mente.
Non si tratta del ‘solito’, scontato documentario d’arte, poiché ha un’anima che emerge strada facendo e conquista la sensibilità e il cuore dello spettatore seduto in platea, induce alla riflessione, ci lascia assaporare il senso profondo della ‘bellezza’ delle cose che tutti inseguiamo quale antidoto alla insensata, assurda e inconcepibile, violenza delle guerre che oggi affliggono l’umanità senza lasciare scampo.
Di suo, il film, grazie alla sensibilità artistica del regista, si trasforma in una vera e propria installazione artistica da godersi comodamente seduti su una poltrona, espressione palpabile di quell’ossessione che ha attanagliato ed ispirato Kiefer nel corso di tutta la sua vita.
Per questo, ribadisco, “Anselm” è qualcosa di più e di più profondo di un ‘semplice’ documentario. Kiefer, così come l’amico Wim, è cresciuto in un Paese devastato dalla guerra e la loro infanzia, l’infanzia della loro generazione, è stata – come ci suggerisce il documentario nel finale – “uno spazio vuoto, come gli inizi del mondo”, uno spazio da conquistare dal nulla (non è sufficiente riappropriarsene) e – nel caso dell’artista – uno spazio da riempire con la sua arte, con le opere, con le installazioni.
L’inizio del film è folgorante con gli inquietanti costumi da ballo femminili, privi di corpo, con i pesi che ne sostituiscono le teste, collocati all’interno di un bosco mentre voci di donne si rincorrono fuoricampo. Ossessivamente Kiefer evoca i poemi nati dalle ceneri del nazismo, riproduce con la sua arte i miti fondanti del romanticismo tedesco (Parsifal, Siegfried, La battaglia della foresta di Teutoburgo, i serpenti e le spade) e i monumenti della Germania distrutta, si occupa dei ‘corpi perduti’ e negati dalla storia: un’autentica ‘ossessione’ si sublima poi, nel finale, nel confronto con le nuove generazioni che ereditano il passato doloroso e contraddittorio: il pronipote di Wenders (Anton Wenders) ne incarna l’infanzia; nel finale Kiefer si ricongiunge con un sé bambino.
In precedenza, nel corso del film, laddove si innestano parti di fiction, il figlio di Kiefer, Daniel, interpreta Anselm da giovane (straordinariamente somigliante al padre che vediamo in qualche filmato di repertorio degli anni ’70 e ’80). Le implicazioni di ordine storico, morale, culturale sono innumerevoli e non sempre di facile immediata lettura per noi comuni spettatori ma certo “Anselm” è opera in tutto e per tutto condivisa da Kiefer e Wenders per penetrare al cuore di quello che la Storia ha consegnato loro e per cercare le tracce di un’umanità perduta.
Si ha a che fare con l’essere tedeschi e con l’essere nati, eredi innocenti. Per comprendere ancora meglio il senso di quest’opera ci viene in soccorso il sottotitolo del film, “Das Rauschen der Zeit”, ovvero ‘il rumore del tempo’, ‘lo scrosciare del tempo’, tant’è che diventano basilari, durante la fruizione di “Anselm”, i suoni, le parole, la musica, che emergono dall’insieme. Tant’è che accanto alle musiche di Leonard Küßner nel film si insinuano i sussurri delle opere stesse, delle fronde degli alberi, come fossero respiri.
E c’è spazio anche per le voci fuori campo, recuperate da ‘antiche’ registrazioni audio o video, di coloro che hanno ispirato (e/o ossessionato) Anselm, come Paul Celan, “il” poeta dell’Olocausto, il poeta rumeno naturalizzato francese, di origine ebraica e di lingua tedesca, o il suo maestro Joseph Beuys. Per circa due anni (tra la Germania e la Francia) il regista si è messo sulle tracce di Kiefer, ripercorrendo i momenti di un percorso dove l’arte incrocia letteratura, scienza, filosofia, mitologia, religione.
Alla fine quella composta da Wenders appare come una sinfonia, in un certo qual modo ordinata cronologicamente, che alla fine Agli occhi dello spettatore si ricompone come un incantevole puzzle. Il tratto distintivo dell’opera di Anselm Kiefer è il monumentalismo delle sue opere, delle sue installazioni, che hanno bisogno di grandi spazi, grandi magazzini, spesso hangar, per essere ‘esibite’ in dimensioni extralarge, come ha fatto intorno alla sua residenza nel sud della Francia, in quella sorta di gigantesco atelier-fabbrica (che Anselm percorre in bicicletta) che è Barjac.
Le sue tele sono enormi e somigliano sempre di più a campi di battaglie e l’artista utilizza i materiali più disparati (sabbia, cenere, gesso, cemento, metallo fuso, piante d’ogni genere e pittura realizzata in maniera tradizionale, talvolta bruciando materiali), utilizza getti di fiamme sulle tele impastate di fibre, piombo, carboncino e rami: egli è un inventore di forme.
Kiefer è oggi un artista che gode di un credito e di un seguito particolari e la mostra a lui dedicata a Firenze nella scorsa primavera ha goduto di uno straordinario successo di pubblico. E lo vediamo poi alla mostra a Palazzo Ducale, a Venezia (2022). Si parla per la prima volta di Anselm Kiefer alla fine degli anni ’60; nel 1970, a venticinque anni quando, indossando l’uniforme del padre e provocatoriamente in posa con il braccio destro alzato a replicare il saluto hitleriano, se ne andava in giro per l’Europa a fotografare i luoghi toccati dalla guerra: sì provocatorio, ma fondamentalmente una presa di coscienza consapevole e critica cui l’artista non si è voluto sottrarre, infrangendo più di un tabù.
Subendo peraltro l’accusa giunta da più parti di aver messo il dito nella piaga dolente in quello che è stato l’incubo della Germania nazista. Pensate alla scena quando un prato schiacciato da un carro armato viene trasformato dall’artista in un paesaggio di straziante bellezza.
“L’uomo cerca la leggerezza perché non vuole vedere l’abisso”, dice l’artista, fa parte della condizione umana, e aggiunge “siamo meno di una goccia nella pioggia, di un atomo, siamo molto leggeri. Essere è un’assoluta parte del niente, nulla è una parte dell’essere”.
Il documentario di Wenders – è bene sottolinearlo – è stato girato in 3D, un formato che può essere apprezzato solo al Cinema, ed il regista già in passato aveva realizzato altri documentari tridimensionali tra cui “Pina”, nel 2011, dedicato alla memoria di Pina Bausch.
Il 3D, di cui Wenders è un maestro indiscusso, dona ad “Anselm” una profondità inusuale, soprattutto interiore, alla ricerca di quegli ‘spazi vuoti’ (cui facevo cenno in precedenza) che alfine sembrano scavare sempre più nell’anima ed evocano i fantasmi del passato.
Il regista tedesco, partendo direttamente dalle opere di Kiefer, si muove come un pendolo tra passato e presente e noi vediamo scorrere dinanzi ai nostri occhi un ‘lavoro sulla memoria’ assolutamente a misura delle nostre sensibilità. Mentre Anselm nel suo incessante ‘movimento’ si definisce “un bandito in perenne cammino”: eterno bambino tra girasoli e notti stellate (da adolescente – veniamo a sapere – aveva vinto un premio per recarsi sui luoghi dove aveva vissuto e dipinto i suoi quadri Vincent Van Gogh).
Non è un caso poi che il film termini con l’opera di Anselm intitolata “Wings” (1985), in cui compaiono un paio di ali smarrite da un angelo, e la nostra mente non può non andare ad uno dei capolavori di Wenders, “Il cielo sopra Berlino” (1987), di due anni dopo, in cui un angelo (Bruno Ganz) veglia sopra la città.
Wenders ha raccontato che l’idea di fare un film insieme ad Anselm Kiefer risale ad una trentina di anni fa, ma soltanto di recente il progetto è riuscito a concretizzarsi. “Anselm” è stato presentato in anteprima al Festival di Cannes come evento speciale nel 2023, nella stessa edizione in cui Wenders ha proposto in concorso lo splendido “Perfect Days”.
(Luigi Lozzi)